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GIOVANNI VALENTINO GENTILE

Giovanni Valentino Gentile, umanista e maestro di scuola calabrese, nacque nel 1522 a Scigliano, vicino a Cosenza. Da giovane fu influenzato dalle dottrine anabattiste di Giorgio Siculo, basate sul battesimo degli adulti e sul valore puramente simbolico (negando la transustanziazione) dellaComunione. Inoltre Gian Valentino prese parte a Napoli ai circoli valdesiani (ispirati cioè al pensiero di Juan de Valdès) e fece parte dell'Accademia Cosentina, poi denominata Telesiana in onore di Bernardino Telesio. Nel 1546 partecipò ai Collegia Vicentina a Vicenza, allineandosi alle idee antitrinitarie (esiste un solo Dio; Gesù era un uomo ispirato da Dio) di Lelio Sozzini. Perseguitato dal Consiglio dei Dieci, fuggì nel 1557 con Apollonio Merenda in Svizzera a Ginevra. Qui, nel 1558, si rese protagonista, assieme a Giovanni Paolo Alciati della Motta e a Giorgio Biandrata, di una forte polemica contro Calvino. Infatti il 18 maggio 1558 quest'ultimo aveva chiesto a tutti gli italiani esuli a Ginevra di firmare un documento di fede trinitaria, che Gian Valentino, in un primo momento, si rifiutò di firmare, ma poi sottoscrisse probabilmente senza convinzione. Infatti il Gian Valentino, assieme al Biandrata, aveva sposato la causa triteista, basata sulla separazione delle tre persone Divine: Padre, Figlio e Spirito Santo in tre Dei distinti. Di questi, però, solo il Padre era veramente fonte di divinità, mentre gli altri due erano subordinati. Queste idee furono successivamente assorbite dal filone unitariano dei Sozzini, che propugnava l'esistenza di un solo Dio, affermando la natura umana di Gesù e quella di potere santo per lo Spirito Santo. Come era prevedibile, un mese dopo la firma del documento di Calvino, Gian Valentino fu denunciato, assieme a Nicola Gallo, e processato per eresia e bestemmia direttamente da Calvino in persona. Indubbiamente gli andò meglio del povero Michele Serveto, arso sul rogo: benché in un primo momento Gian Valentino fosse stato condannato alla decapitazione, l'esecuzione venne sospesa ed egli venne condannato a girare, preceduto dagli araldi con le trombe, per la città in camicia, a capo scoperto e a piedi nudi, per chiedere scusa pubblicamente alle autorità. Oltre a ciò, dovette lui stesso dare alle fiamme i propri scritti. A quel punto il Gian Valentino, povero in canna, pensò ad un nuovo trasferimento dapprima a Farges (nel Pays de Gex bernese), da Matteo Gribaldi Mofa, poi a Lione, dove cercò di pubblicare il suo libretto Antidota, di forte sapore antitrinitariano. Recatosi da Gribaldi, che stava insegnando a Grenoble, Gian Valentino fu nuovamente fatto arrestato dal balivo di Gex, ma, in attesa di essere processato, si mise ulteriormente nei guai per aver pubblicato una professione di fede antitrinitariana con dedica allo stesso balivo di Gex (cosa che fece imbestialire quest'ultimo!). Riuscì faticosamente a farsi scagionare, dimostrando che i suoi attacchi erano diretti solamente contro Calvino e contro l'interpretazione della Trinità che il riformatore ginevrino dava, ma fu per questo pesantemente attaccato da Calvino stesso nel suo Impietas Valentini Gentilis del 1561. Emigrò quindi, assieme ad Alciati della Motta, nel 1562 in Polonia, a Pinczòw, al seguito del Biandrata e vi rimase fino al 1566, quando si fecero sentire gli effetti dell'Editto di Parczòw del 1564, emanato dal re polacco Sigismondo II Iagellone, detto Augusto (1548-1572) e fortemente voluto dal nunzio di Cracovia, cardinale Giovanni Francesco Commendone (1523-1584). L'editto ordinava infatti l'espulsione immediata per tutti gli stranieri non di fede cattolica. A questo punto, il Gian Valentino si recò, assieme a Bernardino Ochino e ad Alciati, ad Austerlitz (in Moravia) presso Nicola Paruta. Ma anche questo gruppo ebbe vita breve per la morte dell'Ochino nel 1565. Il Gian Valentino ritornò quindi in Svizzera, a Berna, confidando nel fatto che l'ambiente fosse cambiato: erano infatti morti sia nemici, come Calvino nel 1564, che amici, come Gribaldi di peste nel 1565. Tuttavia Gian Valentino non riuscì a stare tranquillo, mettendosi ben presto nei guai per aver provocatoriamente sfidato i teologi protestanti di Francia e Savoia ad un dibattito pubblico sulla Trinità di Dio: la fazione perdente, secondo lui, avrebbe dovuto essere condannata a morte! Fu invece arrestato, sospettato di essere un anabattista (accusa molto grave in quel momento) ed incarcerato a Berna nel 1566. Sia Theodore de Béze, e Johann Heinrich Bullinger, che gli altri riformatori svizzeri consigliarono alle autorità bernesi la massima severità contro questo impenitente antitrinitario italiano, e, nonostante che Simone Simoni, visitandolo in carcere, lo avesse esortato alla prudenza nella sua polemica nel confronti del calvinismo, evidentemente Gian Valentino non seguì questo consiglio: infatti il 10 settembre 1566 fu giustiziato mediante decapitazione. Ma anche durante il percorso per il patibolo, egli proseguì nella sua polemica, accusando i suoi carcerieri di essere sabelliani.
(da Eretici Italia)

PARAFANTE

Paolo Mancuso meglio conosciuto come il brigante PARAFANTE, nacque a Serra di Scigliano nel 1783, figlio, insieme a 5 fratelli, di Francesco Mancuso e Francesca Coltellaro di Marturano. Soltanto un fratello era di indole buona e si fece prete: Antonio, impiccato dai francesi a Nicastro insieme alla sorella. Gli altri: Giacinto, sanfedista assassinato in gioventù; Fortunato anche lui assassinato; Pasquale, Sanfedista come i fratelli, si rifugiò in Sicilia.
Paolo, andò a scuola fino a 10 anni, a 17 anni si unì al Cardinale Ruffo nella presa di Crotone contro i Francesi.
Il Brigante Parafante è stato descritto come scuro di carnagione, dal carattere malinconico e triste. Una leggenda vuole affetto da varicella all’età di 5 anni, questa gli sfigurò terribilmente il viso, tanto che persino i genitori lo tenevano lontano. Dopo la sconfitta Sanfedista e l'invasione francese cedette le armi al Generale Amato accettando l'amnistia. Tregua che durò poco, dato che rifugiatosi in Sila nella zona del Gariglione insieme a 50 uomini iniziò il Brigantaggio. Inseguito dal generale Amato fino a Cerenzia, riuscì a raggiungere S. Giovanni in Fiore. Il generale Amato fece impiccare per ritorsione molti briganti catturati nell' inseguimento, compreso il fratello Giacinto Mancuso, lasciandolo penzolare dalle mura della città di Cosenza. La notizia della morte dei suoi fratelli, fece infuriare Parafante, che perse la testa diventando più temerario e spietato sia con i Francesi che con i nobili.
Il 14 febbraio 1810 fu ucciso nel bosco di Camello vicino Feroleto alle spalle di Nicastro. Il suo ultimo atto da brigante fu l’uccisione di Giuseppe Testo, comandante della guardia civile di Platania. Parafante e le sue truppe furono decapitati e smembrati dai francesi e i loro corpi furono portati trionfalmente come trofeo in giro per i villaggi fino alla città di Cosenza.
Parafante, brigante temutissimo era tra i più potenti della Calabria insieme a Fradiavolo, Panedigrano, Francatrippa , svolse diverse azioni per conto degli inglesi.
Da alcune testimonianze dell’ epoca alcune tratte dal libro "Brigantaggio" di Manhès e Farlan riportiamo :
Parafante nello stesso anno (1791) del mese di ottobre assaltò colla sua compagnia la comune dei Parenti,e propriamente alla casa di Filippo Cardamone,acciò ci potesse cadere acconcio di uccidere Giuseppe Cardamone figlio di Filippo,perchè costui era capitano civico,e cercava la sua distruzione,pur nondimeno si fece resistenza all'interno del paese,pose però Parafante fuoco al palazzo di Cardamone,ed in quello conflitto restò ferito il signor Pietro Cardamone zio del capitano nell'occhio sinistro,di cui oggi ne è privo. Essendo la sua compagnia numerosa ebbe l'intento di entrare nel paese,per cui entrati dentro,fecero un saccheggio lo più minuto che mai. Parafante domandò poi una somma di ducati settecento,a cui non si volle aderire. E da ciò ne derivò dichiarata inimicizia tra questa famiglia di Cardamone,con detto Parafante;con lui vi era unito il nominato Niurello,e sempre facevano dei furti in ogni ceto di persona che incontravano. Parafante poi si portò nella Sila nel mese di settembre corrente anno nel luogo detto Varco di Piazza nella mandria di Antonio Cardamone ,e Filippo Cardamone soci,ambedue della comune di Parenti,ed avendo ivi ucciso dodici vitelli,undici bagagli, nove vacche,e si prese per comodo dei briganti suoi compagni giumenti numero quattordici,e pose fuoco a tutti gli utensili di rame,e di legno,solamente lasciò il tugurio per comodo dei foresi. Dopo di aver fatto questo delitto passò all'ovile dei stessi soci,ed uccise a colpi di coltelli quattrocento pecore che erano ivi racchiuse. Parafante fece questi barbari danni, perchè l'anno passato cerò a detto Cardamone una somma di denaro,che sommava a ducati 700, e detta somma li furono denegati. La civica di Carpanzano era nel mese di agosto alla Sila nel posto di Petraravo,comandata dal capitano civico Gregorio Cristino. Parafante assaltò il detto posto nottetempo,ma fu respinto,e fugato dalla stessa civica.Egli vedendosi così respinto,si portò nella mandria di Filippo Cardamone della comune di Parenti e li uccise undici bagagli,ottanta pecore,e undici vitelli.
Parafante nello stesso mese di giugno prese a Rosario Fuoco di Parenti, e con varie minacce di toglierli la vita gli estorse ducati mille,ed a Nicola Greco gli tagliò la lingua nella Sila,nella stessa epoca,per causa che esso avea detto alla civica di Colosimi,di esserci in quei luoghi,un compagno suo ferito. Nel fondo detto Carito,sito nella comune di Parenti di pertinenza della famiglia di Morelli e di Sicilia di Rogliano,tagliò un grandissimo querceto per motivo che il padrone non aveva voluto mandargli alcune cose di oro che li avea domandato. Parafante continuando l'inimicizia colla famiglia Cardamone si prese per ultimo quattro cavalli, cioè uno era di Filippo Cardamone, un altro di Antonio Cardamone, un altro di Costantino Cardamone, ed un altro di Filippo Cardamone.
Il 14 marzo dello stesso anno la civica di Carpanzano, e la scelta sotto il comando del capitano Lacoste del Cetraro,attaccarono a questo assassino nella Sila nel luogo detto Rupe in territorio dei' Parenti,li uccisero due compagni,e ne ferirono degli altri. Parafante si salvò la vita per una folta nebbia,che sopravvenne in tempo dell'attacco,e fu costretto a buttare le armi,e fuggire a piedi nudi,e senza cappello. Nel mese di ottobre dell'anno precedente,fece un biglietto al signor Vincenzino Morelli,domandandogli duemila ducati,questi ricusò,ed avendo avuto lanegativa, Parafante con tutti i suoi compagni li tagliò tutti gli alberi fruttiferi,del fondo chiamato Carito …."
“Il comandante della piccola città di Rogliano studiava il modo di prendere quel formidabile capobanda, Parafante, quando un ecclesiastico del vicinato andò a trovarlo e gli annunziò, con aria misteriosa, che aveva da fargli certe gravi rivelazioni; quando notò che il comandante non gli accordava piena fiducia, ebbe a mostrargli alcuni certificati francesi, che lo dichiaravano buon patriota. Allora il comandante, dopo aver bene esaminati i certificati, parve ascoltare l'ecclesiastico con maggiore benevolenza. Il prete affermò, che era nemico personale di Parafante, a causa di un assassinio commesso dal brigante in persona di un suo congiunto, il che non gli impediva di avere relazioni con la banda, relazioni per le quali prometteva di far cadere Parafante nelle mani, dei Francesi, in modo semplice e ingegnoso. Infatti Parafante aveva catturato un cittadino di Rogliano e gli aveva imposto un riscatto di mille ducati, che in quella stessa notte avrebbe dovuto incassare. Il comandante approvò l'espediente e fu convenuto che alle dieci una colonna di cento uomini, condotta dalla guida indicata, si sarebbe avviata con la maggiore segretezza possibile. Ed ecco che a questa guida fu dato un appuntamento fuori la città e quando la si ebbe nelle mani, parte con minacce, parte offrendogli dei danaro si riuscì a fargli confessare che il suo padrone, venduto ai briganti, non aveva altro scopo all'infuori di quello di allontanare da Rogliano la maggior parte della guarnigione, per dare agio ai briganti di fare un tentativo sulla città. Furono subito mandati quattro uomini ad arrestare il prete, che però era già scappato. Alla guida furono legate le mani dietro le spalle e due uomini pronti a far fuoco su di lui al minimo tentativo di fuga, gli furono messi ai fianchi. All'una dopo mezzanotte, la colonna fu posta in un'imboscata conveniente, e vi si tenne in perfetto silenzio. Presto si udì un rumore confuso, che annunziava l'arrivo dei briganti; quando costoro furono a mezzo tiro di carabina, i soldati fecero fuoco; e dieci o dodici furono uccisi ed altrettanti feriti, e infine, uscendo dall'imboscata, i Francesi piombarono su di loro alla baionetta. I banditi fuggirono, ma disgraziatamente Parafante non era con loro, avendo seguito un'altra via. Come aveva detto la guida le due colonne si dirigevano a Rogliano, con l'intenzione di sorprenderla, ma i colpi di fucile e le grida dei briganti erano giunti fino a Parafante, che credendosi tradito da qualcuno dei suoi, passò in altra parte della Calabria, e le vicinanze di Rogliano furono liberate della sua presenza”….